È sempre così: quando De Andrè comincia a cantarmi di
colonna sonora le sue poesie sento una nostalgia fortissima della mia penna e
del mio foglio (anche virtuali) e mi vien voglia di scrivere; mi accorgo adesso
che non aggiorno questo blog da tanto, troppo tempo, e di questa cosa mi
vergogno: purtroppo però io sono fatta così, sono incostante, sono altalenante,
sono lunatica, un attimo prima ci sono e l’attimo dopo sono lontana qualche
infinito, perciò dovrete perdonarmi e prendermi così come sono, anche nella
comunità virtuale: l’incarnazione della discontinuità.
E quindi torno a scrivere cullata dalla voce di Faber e
lascio andare in libertà i miei pensieri compressi da troppo tempo.
Sì che è stato un periodo “incasinato”: bisogna pur
studiare, fra la decisione folle di candidarsi alle comunali del proprio paese
e di seguire la campagna elettorale districandosi fra problemi altrui che ti
incasinano la vita e che ti ritrovi addosso senza motivo apparente e qualche
domanda irrisolta tua propria che stai rimandando da troppo tempo. E la cosa
più fastidiosa diventa quella sensazione di fare, fare, fare in continuazione,
di lanciare i dadi, muoverti di qualche casella, affrontare imprevisti e
opportunità remando contro una sfiga ormai cronica che ti ci si è affezionata e
non vuole lasciarti andare, ma alla fine, ritrovarti sempre al punto di
partenza, continuare a passare insistentemente dal via senza riuscire a
costruire casette da nessuna parte, figuriamoci a piazzare su un albergo come
si deve. Ma questa sera sono stanca di farmi stare bene un orrendo pocket
coffee fra una cosa fatta di corsa e una rattoppata all’ultimo momento, a causa
della mancanza di tempo per farmi un caffè come si deve. Quindi me ne frego che
sono le dieci passate e metto su la caffettiera.
E mentre aspetto, mi dico che questo turno lo salto,
rinuncio a lanciare i dadi, me ne sto ferma a guardare gli altri che fanno il
loro gioco. Così perderò miseramente, ok, ma la mia pedina al momento non vuole
gareggiare, ha bisogno di un momento di pausa. Ha bisogno di un pizzico di
magia: quella magia che ti fa ritrovare improvvisamente all’interno di un quadro
di Toulouse Lautrec, dalle pennellate decise e quasi violente a disegnare un
mondo notturno imprevedibile e a tratti anche un po’ spaventoso, ma di certo
vivo. La mia pedina ha bisogno di una svolta, di questo gioco sempre uguale a
se stesso s’è stancata, tanto su largo Vittoria non ci passa mai nessuno,
quindi quella casa che a fatica ci ha costruito è anche inutile. La mia pedina
se ne frega del fatto che questo è un gioco fantastico e che tutti gli altri si
stanno divertendo, la mia pedina vuole cambiare schema.
La mia pedina è stanca di pensarti ad ogni lancio di dadi,
ad ogni casella superata, ad ogni imprevisto affrontato, la mia pedina è stanca
di ridirsi le parole dette e di ripensarsi quelle non dette, di fare spallucce
di fronte ad ogni frase letta, ad ogni pensiero prodotto, ad ogni canzone
ascoltata, ad ogni notizia sentita per cui istintivamente ha pensato che
avrebbe dovuto parlartene e voluto sentire come la pensavi e poi niente, non
era possibile. La mia pedina è stanca di sentirsi fuoriluogo ovunque si trovi perché
nel frattempo è proiettata in un mondo parallelo in cui vorrebbe essere con te,
continuando a maledire la congiunzione astrale che ha fatto sì che questa
pedina sia così terribilmente inconciliabile con quella testa odiosa che ti
ritrovi. La mia pedina si è stancata di sentire la tua mancanza. La mia pedina
si è stancata di mancarsi.
L’aroma del caffè invade la casa.
“Così fu quell’amore dal mancato finale, così splendido e
vero da potervi ingannare”.
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