sabato 23 febbraio 2013

Caffè rivoluzionario


Ho sempre pensato che il caffè sia un piacere abbastanza democratico, e mentre osservo la variegata composizione dei clienti di questo bar me ne convinco sempre di più. Qui un uomo d’affari che sigla un accordo raggiunto davanti a un caffè macchiato, lì due signore di ritorno dalla visita al mercato settimanale si rilassano con un caffè d’orzo, là un caffè ristretto prima di una sigaretta e poi via, a lavoro, per una giovane donna in carriera. Si insomma, è gente con abitudini e possibilità diverse che però è accomunata da questo momento di pausa alla portata di tutti. E non posso non domandarmi, questa gente, domani, in cabina elettorale chi voterà. O cosa voterà. O se voterà. 

A beneficio del mio egocentrismo, vi dico che io andrò a votare. Parto da un presupposto fondamentale: credo che governativamente queste saranno fra le elezioni più inutili degli ultimi trent’anni. Il Parlamento che ne verrà fuori sarà totalmente privo di capacità legiferativa, che per raggiungere una maggioranza seria e condivisa dovrebbe mettere d’accordo da Grillo a Monti, passando per Bersani, e sinceramente non è un’ipotesi fattibile neanche nel migliore dei film visionari di Tim Burton. E quindi ha senso esprimere un voto “inutile”?

Certo, che brutta abitudine questa di dare un aggettivo alla parola “voto”. Il voto è un diritto (e un dovere), e non è neanche un diritto così scontato: noi ci siamo abituati e l’abbiamo violentato, questo diritto, ma c’è gente che si è fatta tagliare le dita, in Afghanistan, per esprimere il proprio voto, quindi smettiamola di fare spallucce e dire: tanto, per quello che conta, perché conta, e anche molto. Conta perchè il bello della democrazia (leggi elettorali truffa permettendo) è che consente a un popolo di scegliersi i rappresentanti. Quindi io questo diritto, espressivo di un potere, lo esercito. E vi dico anche chi voto: voto le donne e gli uomini di Rivoluzione Civile, che sostengono come candidato premier Antonio Ingroia. 

Perché, per dirla con Gino Strada, fondatore di Emergency, che interrogato su come gestirebbe la sanità se fosse ministro ha magistralmente sintetizzato tutto ciò che si poteva rispondere dicendo: “Un ospedale è un ospedale, non una fottuta azienda”, anche un “Paese è un Paese, non una fottuta azienda. O una fottuta banca (che è anche peggio)”, e quindi sono stanca di imprenditori che governano questa nazione come fosse un’impresa che deve essere concorrenziale sul mercato, o di economisti che ne hanno fatto una banca e l’hanno gestita come fosse una banca: voglio essere rappresentata da gente che metta a disposizione le proprie competenze tecniche per governare un Paese con il suo popolo, non “per” il suo popolo. Rivoluzione Civile questa gente la può esprimere. 

Ho deciso di votare chi non vuole e non può vincere, e che nessuno mi venga a dire che il mio è un voto inutile. Perché il mio voto non serve a far perdere la sinistra e vincere la destra, dato che il mio voto non serve a far vincere o perdere proprio nessuno, perché il mio voto non “serve” nessuno. Ho sempre trovato divertente questo equivoco linguistico: “Il signor x ha vinto le elezioni”, leggeremo a chiusura dei seggi e a spoglio effettuato; non puoi votare Ingroia, rischi di far vincere Berlusconi. Come se le elezioni avessero davvero come risultato dividere i parlamentari in vincitori e vinti. Chi ha “vinto” una elezione lo si può dire solo a fine legislatura, effettuando un bilancio di quanto è stato fatto e quanto è stato tralasciato: il giorno dopo le elezioni non è il punto d’arrivo, è il punto d’inizio. La politica non è un fine da raggiungere con ogni mezzo, è un mezzo per raggiungere un fine.  Questo è l’errore principale dei politici italiani da trent’anni a questa parte, ed è questo il motivo per cui fra vinti e vincitori dal ’93 ad oggi io vedo solo sconfitti, e di questo sono stufa. Perciò andrò a votare, e voterò Rivoluzuone Civile.

Perché c’è bisogno di cambiare questa logica di chiusura in se stessa della politica; perché c’è bisogno di gente che non abbia paura di parlare di laicità, di lotta alla mafia, di tassazione delle grandi ricchezze, di rifiuto delle grandi opere, di valorizzazione della sanità e dell’istruzione pubbliche, senza dover dare un colpo al cerchio e uno alla botte, pensando allo Stato per quello che è, non intendendolo come una copia sbiadita di una banca o di un’impresa. 

I motivi per cui non votare tizio, caio e sempronio non mi interessano: le campagne elettorali “contro” non mi sono mai piaciute. Io ho scelto da che parte stare, perché una rivoluzione pacifica ormai non si può più ritardare. E mi bevo questo caffè fiera del mio voto rivoluzionario, che questo è davvero l’unico  modo in cui qualificare un voto. 

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