domenica 8 settembre 2013

Spero solo che in Norvegia sappiano fare un buon caffè. Considerazioni personali a margine del significato odierno di essere italiani. No, questa volta non me la prendo con i politici.

Ho letto questa notizia (fonte: Repubblica.it), mi sono incazzata, e anche parecchio; a me la rabbia si manifesta come un’energia che si concentra al centro delle mani. Niente, per sfogarla, dovevo scrivere. La notizia è questa (citata testualmente dal sito).
"Troppi stranieri in classe". E i genitori italiani ritirano i figli dalla scuola. E' successo a Corti, frazione di Costa Volpino, nel Bergamasco, il più grosso centro dell'Alto Sebino. Nell'unica prima ci sono solo sette bambini italiani, mentre gli altri 14 iscritti sono soprattutto africani (in gran parte marocchini) con qualche albanese e romeno.
Vista la situazione, i genitori degli scolari italiani hanno ritirato i figli iscrivendoli nelle altre scuole di Costa Volpino o delle altre sei frazioni. Negli ultimi casi i genitori hanno detto chiaramente al direttore che se non avesse trovato posto ai loro figli nelle primarie delle altre frazioni li avrebbero portati direttamente in un altro comune.
In un primo momento scuoto la testa sconsolata. Non ho più molta stima dei miei compatrioti (diciamolo pure, da quando hanno dato fiducia alle ultime elezioni a due comici improvvisati politici, con la differenza che uno lo fa da trent’anni e l’altro ci si cimenta da qualche annetto a questa parte), ma ancora una volta devo rassegnarmi alla considerazione che non hanno proprio voglia di crescere, questi italiani. Sì, perché quale occasione migliore per crescere del confronto interculturale? La diversità è la risorsa più bella di questo mondo, immaginate quante cose avrebbero potuto imparare quei bambini italiani che genitori idioti hanno spostato in altre scuole, condannandoli a diventare adulti idioti: termini di lingue differenti, usanze, modi di affrontare il quotidiano. Li avrebbero interiorizzati, probabilmente, avrebbero imparato a conviverci, ad apprezzarne il valore aggiunto, sarebbe diventato per loro qualcosa di familiare, e probabilmente da grandi non avrebbero fuggito un amico marocchino o rumeno, semplicemente perché non ci avrebbero visto il marocchino, o il rumeno, ma solo il ragazzo, il compagno di giochi, poi di studio, poi di innocue sbronze adolescenziali, di qualche stronzata e di qualche successo. E invece, niente.
E qui cade la seconda reazione: sospiro di tristezza. Solo io rimpiango amaramente il fatto di essere cresciuta in una paesino troppo provinciale per conoscere, ai miei tempi, le classi miste? Ricordo ancora che nella mia scuola elementare c’era un bambino musulmano, e la prima volta che l’ho visto pregare ho provato curiosità, di certo non paura. E nessuno dei miei maestri ha colto quella curiosità per spiegarmi bene con cosa mi stavo confrontando: risultato, non mi hanno consentito di crescere. E perché adesso che questa opportunità è più alla portata, dobbiamo ostinatamente chiuderci? Eh, mi verrà obiettato, ma gli stranieri rallentano i programmi! Punto primo: nella mia classe elementare un mio compagno, all’analisi grammaticale, scrisse, di “bambola”, voce del verbo bambolare. E vi assicuro che era italianissimo. Invece, il ragazzo siriano con cui parlai un paio di anni fa, quando il mio paese, Manduria, ospitò i profughi in eccedenza provenienti da Lampedusa, mi prese in giro per il mio inglese stentato a confronto del suo fluente. E poi loro ci rallenterebbero, noi, geni della cultura! Punto secondo: oh, beh, si, forse quei bambini si sarebbero fermati alla tabellina del sette e non avrebbero raggiunto quella dell’otto nel primo anno. O forse non avrebbero potuto imparare Manzoni in terza elementare (Ei fu. Mamma che allegria), e avrebbero dovuto aspettare la quinta, ma almeno avrebbero imparato ad essere dei bambini oggi, e adulti domani, più umani, meno limitati, più completi. Si, avrebbero dovuto affrontare l’8x7 come 7x8, per risolvere una moltiplicazione, ma avrebbero saputo intrattenere delle relazioni umane più belle. Ditemi voi chi ci perde.
E infine, la rabbia. La rabbia perché quei sette genitori paladini della cultura, hanno condannato i loro figli, e dei bambini innocenti. Quei marocchini, quegli albanesi, quei rumeni, restando fra di loro, impareranno più difficilmente l’italiano. Condivideranno meno la nostra cultura. Si integreranno di meno. Continueranno a sentirsi parte di una minoranza svantaggiata. I più fortunati penseranno “e ‘sti cazzi” e faranno vedere agli italiani come si conquista un Nobel per la fisica, ma i meno forti, i meno fortunati, si isoleranno, si emargineranno, non potranno accedere che a lavori sottopagati, perché magari non continueranno a studiare. Già, perché riflettiamoci un attimo: i bambini stranieri non li vogliamo, quindi spostiamo i nostri figli. Poi magari per il numero troppo basso la classe prima elementare a Corti non si forma. E il genitore marocchino che si spacca la schiena tutto il giorno nei campi e non ha la macchina per accompagnare il figlio in un’altra frazione, se già era scettico all’idea di iscrivere il figlio a scuola, magari adesso non lo iscrive proprio più, e lo porta a lavorare con sé. Quel bambino marocchino gentilmente ringrazia per l’occasione persa di avere una vita decente.
Parlandone con un’amica, il pensiero automatico è stato: vabbè! Saranno leghisti. No, impossibile che un intero paese sia tutto in onore alla lega. Peggio: sono italiani. Sono quella razza stupida e ottusa che continua a credere che il vero problema sia la legge bavaglio, o l’esposizione mediatica di Berlusconi, o il fatto che Letta Junior sia nipote di Letta Senior. Che ritiene che il male dell’Italia sia Napolitano eletto al secondo mandato, o lo stipendio di un parlamentare, o il fatto che un politico insulti un ministro nero dandogli dell’orango (con buona pace degli oranghi, paragonati a un medico stimato e politico di tutto rispetto). Perché no:  il vero problema è che quel politico che insulta sul colore della pelle da qualcuno deve pur essere stato eletto. Quindi io, qui, quel “vaff****o” che tanti hanno ritenuto potesse essere lo slogan di una nuova rivoluzione del popolo sovrano (se, vabbè!), lo rigiro al popolo sovrano. Che mi ha stancata, e questa volta faccio sul serio: me ne vado in Norvegia. E quando mi chiederanno “Ah, italiana?!”, risponderò: “no, rumena

domenica 9 giugno 2013

Mai piaciuti i pocket coffee - scusate, è un post intimistico

“E la moglie di Anselmo sente l’acqua che scende, dai vestiti incollati, da ogni gelo di pelle…”

È sempre così: quando De Andrè comincia a cantarmi di colonna sonora le sue poesie sento una nostalgia fortissima della mia penna e del mio foglio (anche virtuali) e mi vien voglia di scrivere; mi accorgo adesso che non aggiorno questo blog da tanto, troppo tempo, e di questa cosa mi vergogno: purtroppo però io sono fatta così, sono incostante, sono altalenante, sono lunatica, un attimo prima ci sono e l’attimo dopo sono lontana qualche infinito, perciò dovrete perdonarmi e prendermi così come sono, anche nella comunità virtuale: l’incarnazione della discontinuità.

E quindi torno a scrivere cullata dalla voce di Faber e lascio andare in libertà i miei pensieri compressi da troppo tempo.

Sì che è stato un periodo “incasinato”: bisogna pur studiare, fra la decisione folle di candidarsi alle comunali del proprio paese e di seguire la campagna elettorale districandosi fra problemi altrui che ti incasinano la vita e che ti ritrovi addosso senza motivo apparente e qualche domanda irrisolta tua propria che stai rimandando da troppo tempo. E la cosa più fastidiosa diventa quella sensazione di fare, fare, fare in continuazione, di lanciare i dadi, muoverti di qualche casella, affrontare imprevisti e opportunità remando contro una sfiga ormai cronica che ti ci si è affezionata e non vuole lasciarti andare, ma alla fine, ritrovarti sempre al punto di partenza, continuare a passare insistentemente dal via senza riuscire a costruire casette da nessuna parte, figuriamoci a piazzare su un albergo come si deve. Ma questa sera sono stanca di farmi stare bene un orrendo pocket coffee fra una cosa fatta di corsa e una rattoppata all’ultimo momento, a causa della mancanza di tempo per farmi un caffè come si deve. Quindi me ne frego che sono le dieci passate e metto su la caffettiera.

E mentre aspetto, mi dico che questo turno lo salto, rinuncio a lanciare i dadi, me ne sto ferma a guardare gli altri che fanno il loro gioco. Così perderò miseramente, ok, ma la mia pedina al momento non vuole gareggiare, ha bisogno di un momento di pausa. Ha bisogno di un pizzico di magia: quella magia che ti fa ritrovare improvvisamente all’interno di un quadro di Toulouse Lautrec, dalle pennellate decise e quasi violente a disegnare un mondo notturno imprevedibile e a tratti anche un po’ spaventoso, ma di certo vivo. La mia pedina ha bisogno di una svolta, di questo gioco sempre uguale a se stesso s’è stancata, tanto su largo Vittoria non ci passa mai nessuno, quindi quella casa che a fatica ci ha costruito è anche inutile. La mia pedina se ne frega del fatto che questo è un gioco fantastico e che tutti gli altri si stanno divertendo, la mia pedina vuole cambiare schema.

La mia pedina è stanca di pensarti ad ogni lancio di dadi, ad ogni casella superata, ad ogni imprevisto affrontato, la mia pedina è stanca di ridirsi le parole dette e di ripensarsi quelle non dette, di fare spallucce di fronte ad ogni frase letta, ad ogni pensiero prodotto, ad ogni canzone ascoltata, ad ogni notizia sentita per cui istintivamente ha pensato che avrebbe dovuto parlartene e voluto sentire come la pensavi e poi niente, non era possibile. La mia pedina è stanca di sentirsi fuoriluogo ovunque si trovi perché nel frattempo è proiettata in un mondo parallelo in cui vorrebbe essere con te, continuando a maledire la congiunzione astrale che ha fatto sì che questa pedina sia così terribilmente inconciliabile con quella testa odiosa che ti ritrovi. La mia pedina si è stancata di sentire la tua mancanza. La mia pedina si è stancata di mancarsi.

L’aroma del caffè invade la casa.

“Così fu quell’amore dal mancato finale, così splendido e vero da potervi ingannare”.

lunedì 22 aprile 2013

Racconti da caffè: episodio uno


Allora, allora…avete ragione: questo caffè che accompagna il primo episodio della nostra storia-in-progress si è fatto attendere un po’ troppo, e di questo invoco perdono a tutti voi lettori: purtroppo la scrivente ha una vita incasinata (per le vite altrui, nda) quindi non si è accostata al foglio e alla penna virtuali per quasi due settimane. Bando alle ciance: ricordo a tutti che questo è il primo episodio di una storia che scriveremo insieme. Alla fine di questo primo frammento, infatti, trovate due frasi in corsivo: si tratta di due possibili conclusioni. Nei commenti, indicate quello che preferite, da oggi e per sette giorni: quello che riceverà più gradimenti sarà il prescelto, e da lì ripartirò per scrivere la continuazione. Per il regolamento di questo gioco, rinvio al post precedente: http://ghisola.blogspot.it/2013/03/racconti-da-caffe-episodio-pilota.html.
Buon divertimento!

Il vento soffiava discreto ma inclemente fra le rovine della città a sollevare nugoli di quella polvere antica che era assisa in letargo a coprire macerie testimoni di una vita passata. Maurizio si arrotolò una sigaretta poggiando la schiena al marmo gelido di ciò che rimaneva di una colonna che forse, per secoli, era stata sfiorata in modo timido, perentorio, o appena accennato, da fedeli intimoriti, austeri o annoiati all’interno di una chiesa maestosa ormai distrutta in mille pezzi. Forse, per secoli, la navata silenziosa di quella chiesa si era riempita della luce rossastra dell’alba filtrata dai vetri di un rosone dipinto da mani sapienti d’artigiano, che dall’alto aveva osservato generazioni di praticanti avvicendarsi sul pavimento lustro fino a quando, dopo aver resistito al vento, alle piogge, ai terremoti, era stato vinto dalla stessa forza di chi l’aveva creato: l’uomo. 
E allora quel semplice vetro lavorato a divenire un’opera d’arte, era tornato ad essere soltanto vetro, frantumato in mille pezzi anonimi. Maurizio tenne la sigaretta in bilico fra le labbra e la accese. Mantenendosi in equilibrio sulle macerie che formavano la collinetta su cui si trovava, guardò di sfuggita il cielo sopra la sua testa. Il sole ormai era nascosto al di là dell’orizzonte e diffondeva una luce pallida a sfumare l’azzurro del cielo in un lilla che in poco tempo sarebbe diventato sempre più scuro, fino a incupirsi in un blu messaggero di notte.
Anche oggi, non è un cielo limpido. Non è piovuto, non ha minacciato temporali, non si è nemmeno annuvolato, ma il cielo non è stato limpido, non lo è neanche adesso c’è questa maledetta patina opaca fra me e il cielo non lo ricordo quasi più quand’è stata l’ultima volta che ho visto un cielo terso. Cinque, forse sei anni, forse era un giorno di Natale, forse ero nella casa in campagna dei nonni ma chissà. Forse no.
Maurizio scosse il capo ed espirò il fumo in delle nuvolette che gli volarono davanti agli occhi, poi inspirò dalla sigaretta, assaporando il sapore amaro del tabacco che gli graffiò la gola e calmò il senso d’inquietudine che quel cielo basso, grigiastro, premendogli sulla testa, gli trasmetteva. Abbassò lo sguardo.
La Città, nata quasi vent’anni prima, ai tempi del Fatto, cominciava ad accendersi di luci che, nella vallata artificiale creata dall’esplosione, erano testimoni di quelle vite che si erano coagulate lì, come sangue rappreso delle ferite del Fatto che, in meno di trenta secondi, aveva spazzato via centinaia di città. Anche lì, come nel resto del mondo, le anime umane sopravvissute si erano riunite a mettere su una città.
In attesa di essere spazzate via di nuovo da un’altra decisione, da un’altra svolta, da altri eventi perché accadrà, accadrà prima o poi, presto o tardi chi lo può sapere, lo vedremo o meno non cambia granchè, ma succederà. Io lo so come lo sanno tutti loro. Ma non possiamo vivere aspettando quel giorno. Proprio no.
Un rumore di pietre smosse e cocci calpestati gli giunse alle orecchie. Istintivamente, fece correre la mano all’immobilizzatore laser che aveva in tasca e spiò davanti a se, fra le rovine; una risata allegra risuonò nell’aria e giocò col vento per qualche secondo; Maurizio la riconobbe e lasciò andare l’immobilizzatore con una smorfia scocciata, gettando lontano da sé il mozzicone che gli era rimasto fra le dita.
-         Ciao, Cristian! – squillò una voce familiare. Maurizio rabbrividì, nauseato, e stese il braccio in direzione del corpo piccolo e ben proporzionato che gli andava incontro in un unico movimento sinuoso. Attirò a sé Delia con una decisione un po’ brusca, se la modellò addosso in un abbraccio artificiale e in un bacio forzato cui fece seguire il miglior sorriso che riuscì a sfoderare. I suoi occhi azzurri e allungati nella forma innaturale tipica di una gatta lo squadrarono perplessi, mentre una vaga consapevolezza li attraversava, e poi si schiusero in una smorfia di provocante contentezza.
Hai capito, vero? Hai capito che c’è qualcosa che non va, non sono mai stato un grande attore.
-         Cristian, ti presento la mia amica Atena, - annunciò lei, scostandosi un poco di lato per lasciar intravedere la figuretta alta, stretta in una giacca a vento che cadeva a coprirle i fianchi, le mani nelle tasche e un foulard rosso legato al collo che giocava con il vento. I suoi lunghi capelli neri erano legati in una coda alta e morbida sul capo e mandavano bagliori azzurrognoli alla luce timida del sole di quel pallido tramonto della nuova Era. Maurizio le vide un sorriso appena accennato e scettico sul volto dai tratti spigolosi e allo stesso tempo eleganti; si limitò a sollevare appena il mento in un saluto muto.
Diffidente, attenta, osservatrice, spaventata non potevo aspettarmi diversamente.
Maurizio le tese la mano, quella avanzò lentamente fra i ciottoli e gliela strinse un attimo, velocemente, facendo vagare lo sguardo altrove oltre l’orizzonte pur di non affrontare quello sfacciatamente indagatore di Maurizio.
No, non mi sono sbagliato.
Delia intanto gli passò una mano attorno ai fianchi e gli sorrise come fosse la prima volta che lo vedeva, lasciandogli addosso l’impronta del proprio corpo affascinante in un gesto che voleva essere quello di una gatta che marca il territorio.
Ha fiutato il mio interesse forse crede che lei mi piaccia comincio a credere che tutta questa storia della sopravvivenza ci abbia resi un po’ più animali di prima, un po’ più istintuali e meno razionali se può essere possibile essere meno razionali di quanto non si sia già stati.
-         Lei è la mia amica di cui ti parlavo l’altro giorno; ha studiato storia dell’arte e adesso è in cerca di un lavoro. Pensi che al Ministero potresti trovare qualcosa per lei?  - spiegò Delia.
Atena abbassò lo sguardo e sospirò piano, visibilmente a disagio.
Questa è un’idea di Delia tu non volevi, vero? Preferiresti continuare a fare la consulente per quel paio di musei che sono nati qui e là e che stanno ancora in piedi in questa zona, continuare a racimolare qualche supplenza in giro per la circoscrizione sud intera, piuttosto che chiedere una raccomandazione.
-         In realtà volevo solo sapere se il Ministero stesse avviando qualche selezione, - si affrettò a dire lei stringendosi nelle spalle.
-         Beh, conosco qualcuno al dipartimento Cultura, potrei fare qualche domanda… - abbozzò Maurizio.
-         Oh, avanti! So che con tutta la gente che conosci puoi trovarle un lavoro come si deve, - cinguettò Delia accarezzandogli il viso con due dita.
-         Non c’è bisogno che ti disturbi fino a tanto, te l’ho detto, - insistette Atena con la voce attraversata da un fastidio che nascondeva una vaga rabbia repressa per quell’atteggiamento di Delia che la stava mettendo in difficoltà.
Onesta. Moriresti, per onestà e in questo mondo di onestà si muore, mia cara.
-         Insomma, mi sembra di capire che un lavoro quasi tu non lo voglia, - la provocò lui con un mezzo sorriso di sfida.
-         Non è questo, - si lamentò lei in difficoltà, - è che…
-         Atena è un tipo timido, - sembrò volerla scusare Delia, prima di sollevarsi sulle punta a lasciare un bacio veloce sulle labbra di Maurizio. – Che ne dite di riparlarne davanti ad una tazza di caffè?

CONCLUSIONE 1
-         Ottima idea, - colse al volo Maurizio. Atena strinse le labbra e annuì poco convinta.
CONCLUSIONE 2
-         Adesso devo andare, magari la prossima volta, - mormorò Maurizio lanciando un’occhiata distratta all’orologio. 

domenica 24 marzo 2013

Racconti da caffè: Episodio Pilota


Se c’è un momento in cui mi piace sorseggiare un caffè in piena pace dei sensi, comodamente appollaiata sul divano, è mentre sto leggendo un libro, mentre mi sto facendo trasportare lontano dalla magia di qualche storia. E mentre mi godo questo momento rilassante, mi viene in mente un giochino che potremmo fare insieme, per questo vi invito tutti nella mia casa virtuale, vi offro questo caffè e vi spiego che progetto diabolico richiederà il coinvolgimento delle vostre pause caffè e delle mie.
Iniziamo dall’inizio: se ancora non si fosse ben capito, ebbene sì, io di tanto in tanto passo il mio tempo a scrivere. Che sia il post di un blog, un articolo d’attualità, un aggiornamento di stato per facebook, una storia. Da lettrice, se c’è una cosa che non sopporto è chi considera un lettore come un semplice spettatore cui deve essere spiegato tutto, che deve essere preso per mano e guidato attraverso lo svolgersi dell’intreccio o il susseguirsi di considerazioni manco fosse un ebete senza capacità di discernimento, ed è quello che, quando mi dedico a imbastire pagine di narrativa, cerco di evitare con tutta me stessa. Ho letto di gente che non sopporta l’idea che, facendo leggere i propri scritti ad altri, questi poi vivano nell’immaginario altrui in modo diverso da come vi hanno sempre pensato loro. E dire che questa è proprio la cosa che piace di più a me, dell’idea che qualcuno possa leggermi: che quel qualcuno faccia propria una storia che io ho vissuto e riportato in un certo modo, ma che di interpretazioni e visioni possa averne di diverse. La diversità per me è arricchimento, non una minaccia.
Fatta questa opportuna premessa, ho pensato che a questo blog manca un po’ di “interattivismo”: voglio farlo diventare un blog 2.0, e credo che questo significhi passare dallo scrivere soltanto “per voi”  allo scrivere “con voi”, quindi mi è venuto in mente un gioco da fare insieme con voi lettori, il cui libretto di istruzioni ammetto di stare ideando in questo momento, seduta stante.
Sotto l’etichetta “racconti da caffè” troverete una serie di post, che cercherò di pubblicare con una certa regolarità, che si susseguiranno per “episodi”; sono post in cui vi sarà chiesto, per giocare, di commentare, e si comincia proprio da questo post. Come? Al termine troverete due brevi incipit di due storie diverse: commentando dovrete dirmi quale dei due vi piace di più; avrete dieci giorni di tempo per esprimervi, e l’incipit che avrà ricevuto maggiori apprezzamenti sarà quello prescelto, cui nel prossimo post di questa serie verrà dato seguito, e così nei successivi “episodi” di questa storia che si svolgerà post dopo post; al termine di ognuno di essi, vi saranno due frasi diverse che potranno entrambe completare l’episodio. Come per questo post, attraverso i commenti, la frase prescelta costituirà la fine del post corrente e l’inizio di quello successivo (in caso di ex aequo, verrà scelta l’opzione che ha ricevuto il primo gradimento nei commenti). Ovviamente, ognuna delle due frasi condurrà ad uno svolgimento diverso: in questo modo, la storia la scriveremo insieme. Potete commentare liberamente: ad oggi, il caffè con me lo può prendere chiunque, e non ho neanche inserito la moderazione dei commenti, per cui ciò che scriverete verrà pubblicato automaticamente. Non fatemi pentire di questa scelta.
Non so se è un’idea valida, non so se avrà successo; so che inizieremo, ma non so se arriveremo ad una fine. Per ora, però, voglio provarci: quindi buona lettura, e buona scelta!

INCIPIT 1

Il vento soffiava discreto ma inclemente fra le rovine della città a sollevare nugoli di quella polvere antica che era assisa il letargo a coprire macerie testimoni di una vita passata. Maurizio si arrotolò una sigaretta poggiando la schiena al marmo gelido di ciò che rimaneva di una colonna che forse, per secoli, era stata sfiorata in modo timido, perentorio, o appena accennato, da fedeli intimoriti, austeri o annoiati all’interno di una chiesa maestosa ormai distrutta in mille pezzi. Forse, per secoli, la navata silenziosa di quella chiesa si era riempita della luce rossastra dell’alba filtrata dai vetri di un rosone dipinto da mani sapienti d’artigiano, che dall’alto aveva osservato generazioni di praticanti avvicendarsi sul pavimento lustro fino a quando, dopo aver resistito al vento, alle piogge, ai terremoti, era stato vinto dalla stessa forza di chi l’aveva creato: l’uomo.  

INCIPIT 2
Quando Veronica tirò su la serranda, un rumore metallico riempì la stradina ancora addormentata nel topore della mattina. Le finestre chiuse delle case proteggevano la calma delle vite che si stavano risvegliando lentamente e che di lì a poco, correndo verso scuole e posti di lavoro, avrebbero affollato il paese. Veronica si guardò intorno e respirò profondamente l’aria fredda dell’inverno prima di aprire la porta della lavanderia e lasciarsi accogliere dal famigliare profumo di violette dell’ammorbidente che da trent’anni utilizzava e che aveva riempito ogni angolo di quelle stanze in cui da trent’anni lavorava, che aveva impregnato le tende, l’imbottitura delle sedie, i fogli delle ricevute e il silenzio che avvolgeva gli abiti, le giacche, i cappotti, i pantaloni sospesi a mezz’aria pronti ad essere ritirati, puliti e stirati alla perfezione; quell’odore di violette, chiudendo gli occhi, Veronica avrebbe potuto sentirlo in ogni ricordo della sua vita. 

venerdì 1 marzo 2013

Allora, ce lo prendiamo questo caffè? Cronaca di un appuntamento

C’è stato un tempo in cui ci frequentavamo con una certa assiduità, ma da un paio d’anni ci siamo persi di vista. Il desiderio di dedicarGli il mio tempo è rimasto intatto, ma per un motivo o per un altro c’era sempre qualcosa da considerare, da vedere, da fare. Negli ultimi tempi, però, il Suo pensiero si è fatto ostinato, siamo tornati a corteggiarci con insistenza; mi aveva già invitata altre volte, eppure ci si era sempre messo il mondo di traverso. Ieri, però, quando mi ha chiesto di prendere insieme questo caffè, non ho potuto rifiutare.

Così la giornata è trascorsa interamente protesa verso quell’orario e quell’appuntamento: ho programmato tutto con cura, come sempre, mi sono preoccupata di non lasciare niente al caso. Mi sono  presa il tempo di cui avevo bisogno per stare con me stessa e prepararmi a quest’incontro, a riscoprire quell’emozione inconfondibile che solo un amante come Lui ha saputo darmi. Ho aspettato con ipocrita indifferenza che arrivasse l’ora di prepararmi, incapace di fare o pensare ad altro.

L’acqua calda della doccia mi è scivolata addosso senza calmare la leggera inquietudine di sempre. Ho asciugato i capelli con una cura maniacale: i miei ricci oggi devono essere perfetti. Mi sono truccata il viso con lentezza, scegliendo con calma i colori, insistendo col mascara perché le mie ciglia fossero arcuate. Ho indossato il vestito che mi piace di più, ho modellato i leggings perché fossero ben tesi, ho litigato con qualche piega di troppo. Ho infilato gli stivali e mi sono guardata allo specchio. Oggi, devo essere al meglio delle mie possibilità, devo sentirmi accettabile; e non mi interessa affatto lo sguardo degli altri o se sarò adatta o meno alla situazione, ciò che conta è che è Lui che dovrà vedermi così. 

Mi ci sono impegnata per non arrivare in anticipo, ma come sempre esco di casa troppo presto, incapace di attendere oltre. L’aria gelida della sera stende le rughe del volto e per un battito di ciglia mi tranquillizza. Mentre la pietra levigata delle strade del centro mi scorre sotto i piedi, non riesco a non pensare a Lui, e a come ho fatto a rimanerci lontana tutto questo tempo.

Arrivo a destinazione con il mio canonico quarto d’ora di anticipo: attendo impaziente camminando avanti e indietro, inventandomi messaggi al cellulare da leggere, concentrandomi di fronte a locandine che non ricordo, mostrando interesse, ma non posso aspettare troppo a lungo: perciò entro, faccio un po’ la finta tonta in giro, e alla fine arriva il momento che aspettavo. Salgo le scale quasi di corsa, sorrido quando sulla parete leggo la targhetta placcata in oro: II ordine. È il mio. Le due ante della porta a battenti che mi trovo davanti sono indicate come “10”. Cammino a ritroso finchè non trovo il “4”. Eccolo, è il mio palco. Ci entro e guardo la platea sottostante che si riempie di gente: sono loro, i miei compagni di viaggio per questa sera. Per un frammento di tempo non calcolabile condivideremo qualcosa che sarà solo nostro, irripetibile così come si svolgerà oggi. È un brivido lungo la schiena il comparire degli attori, lo spegnersi delle luci, il concentrarsi degli sguardi di tutti sul palco dove andrà in scena “Romeo e Giulietta”.

È l’inizio della magia quando si fa il silenzio, un silenzio carico di attesa in cui un colpo di tosse, una sedia che si sposta, un cappotto che scivola dalle braccia, un respiro in più si amplificano e preparano la prima parola declamata in quel tono impostato ma chiaro che parte dal basso del palco di legno e nell’acustica quasi perfetta del teatro sale su fino al loggione, unendo tutti noi spettatori con lo stesso dorato filo dell’attenzione, per catapultarci in un mondo parallelo per due ore. Per due ore loro, la compagnia Factory (loro, per intenderci: http://www.youtube.com/watch?v=UFW6HcGn6q4) riuscirà nel miracolo di tenerci separati dal resto del mondo che fuori continuerà la sua vita, ma per noi, gentilmente, si ferma, e ci consente di partecipare della storia d’amore impossibile più famosa, forse, di farci vivere dei dubbi, delle gioie e degli affanni adolescenziali di questi ragazzi innamorati che si affacciano alla vita adulta che con loro non avrà pietà (qui in una versione adattata estremamente interessante e con una Balia con un accento salentino poco veronese). Per due ore è d’obbligo tenere il cellulare spento, per due ore nessun problema e nessuna preoccupazione sono ammessi, per due ore esiste solo l’amore di Romeo e Giulietta e l’indifferenza bieca delle loro famiglie, per due ore esiste solo la magia che ci rende tutti spettatori dello stesso miracolo.

Le luci in sala si riaccendono, gli attori alla ribalta si prendono i nostri applausi e tornano ad essere uomini e donne con le loro vite uguali e diverse nella quotidianità di un mondo frenetico che non conosce magia. Ma intanto, per due ore, ci hanno regalato un pezzo di sogno. E  mentre lascio il palco ed esco per strada nel freddo della notte che si avvicina, sorrido di quanto potremmo essere lontani, io e il Teatro, e di quanto comunque non saprei smettere di amarlo. 

sabato 23 febbraio 2013

Caffè rivoluzionario


Ho sempre pensato che il caffè sia un piacere abbastanza democratico, e mentre osservo la variegata composizione dei clienti di questo bar me ne convinco sempre di più. Qui un uomo d’affari che sigla un accordo raggiunto davanti a un caffè macchiato, lì due signore di ritorno dalla visita al mercato settimanale si rilassano con un caffè d’orzo, là un caffè ristretto prima di una sigaretta e poi via, a lavoro, per una giovane donna in carriera. Si insomma, è gente con abitudini e possibilità diverse che però è accomunata da questo momento di pausa alla portata di tutti. E non posso non domandarmi, questa gente, domani, in cabina elettorale chi voterà. O cosa voterà. O se voterà. 

A beneficio del mio egocentrismo, vi dico che io andrò a votare. Parto da un presupposto fondamentale: credo che governativamente queste saranno fra le elezioni più inutili degli ultimi trent’anni. Il Parlamento che ne verrà fuori sarà totalmente privo di capacità legiferativa, che per raggiungere una maggioranza seria e condivisa dovrebbe mettere d’accordo da Grillo a Monti, passando per Bersani, e sinceramente non è un’ipotesi fattibile neanche nel migliore dei film visionari di Tim Burton. E quindi ha senso esprimere un voto “inutile”?

Certo, che brutta abitudine questa di dare un aggettivo alla parola “voto”. Il voto è un diritto (e un dovere), e non è neanche un diritto così scontato: noi ci siamo abituati e l’abbiamo violentato, questo diritto, ma c’è gente che si è fatta tagliare le dita, in Afghanistan, per esprimere il proprio voto, quindi smettiamola di fare spallucce e dire: tanto, per quello che conta, perché conta, e anche molto. Conta perchè il bello della democrazia (leggi elettorali truffa permettendo) è che consente a un popolo di scegliersi i rappresentanti. Quindi io questo diritto, espressivo di un potere, lo esercito. E vi dico anche chi voto: voto le donne e gli uomini di Rivoluzione Civile, che sostengono come candidato premier Antonio Ingroia. 

Perché, per dirla con Gino Strada, fondatore di Emergency, che interrogato su come gestirebbe la sanità se fosse ministro ha magistralmente sintetizzato tutto ciò che si poteva rispondere dicendo: “Un ospedale è un ospedale, non una fottuta azienda”, anche un “Paese è un Paese, non una fottuta azienda. O una fottuta banca (che è anche peggio)”, e quindi sono stanca di imprenditori che governano questa nazione come fosse un’impresa che deve essere concorrenziale sul mercato, o di economisti che ne hanno fatto una banca e l’hanno gestita come fosse una banca: voglio essere rappresentata da gente che metta a disposizione le proprie competenze tecniche per governare un Paese con il suo popolo, non “per” il suo popolo. Rivoluzione Civile questa gente la può esprimere. 

Ho deciso di votare chi non vuole e non può vincere, e che nessuno mi venga a dire che il mio è un voto inutile. Perché il mio voto non serve a far perdere la sinistra e vincere la destra, dato che il mio voto non serve a far vincere o perdere proprio nessuno, perché il mio voto non “serve” nessuno. Ho sempre trovato divertente questo equivoco linguistico: “Il signor x ha vinto le elezioni”, leggeremo a chiusura dei seggi e a spoglio effettuato; non puoi votare Ingroia, rischi di far vincere Berlusconi. Come se le elezioni avessero davvero come risultato dividere i parlamentari in vincitori e vinti. Chi ha “vinto” una elezione lo si può dire solo a fine legislatura, effettuando un bilancio di quanto è stato fatto e quanto è stato tralasciato: il giorno dopo le elezioni non è il punto d’arrivo, è il punto d’inizio. La politica non è un fine da raggiungere con ogni mezzo, è un mezzo per raggiungere un fine.  Questo è l’errore principale dei politici italiani da trent’anni a questa parte, ed è questo il motivo per cui fra vinti e vincitori dal ’93 ad oggi io vedo solo sconfitti, e di questo sono stufa. Perciò andrò a votare, e voterò Rivoluzuone Civile.

Perché c’è bisogno di cambiare questa logica di chiusura in se stessa della politica; perché c’è bisogno di gente che non abbia paura di parlare di laicità, di lotta alla mafia, di tassazione delle grandi ricchezze, di rifiuto delle grandi opere, di valorizzazione della sanità e dell’istruzione pubbliche, senza dover dare un colpo al cerchio e uno alla botte, pensando allo Stato per quello che è, non intendendolo come una copia sbiadita di una banca o di un’impresa. 

I motivi per cui non votare tizio, caio e sempronio non mi interessano: le campagne elettorali “contro” non mi sono mai piaciute. Io ho scelto da che parte stare, perché una rivoluzione pacifica ormai non si può più ritardare. E mi bevo questo caffè fiera del mio voto rivoluzionario, che questo è davvero l’unico  modo in cui qualificare un voto. 

venerdì 1 febbraio 2013

Forse chiedo troppo ad un caffè?


Si può scrivere un post solo di domande?

Posso guardare il fondo nero della tazzina e chiedermi perché il caffè si beve a tazze in Europa e a bicchieri in America? Perché gli americani devono essere esagerati in tutto? Ma la casa bianca è tutta bianca anche dentro, ci chiedevamo ieri con un’amica? E gli abitanti devono andare vestiti di bianco (anche se sono neri)?  Ma i bianchi che diventano colorati (tendenzialmente rosa) causa errore in lavatrice poi si lavano con i bianchi o con i colorati? Si possono considerare esiliati? O meglio apolidi? E perché i greci mettevano la prima lettera dell’alfabeto, l’alfa, per rendere una privazione? Perché negare con l’inizio? Due negazioni affermano? E se io voglio rafforzare la negazione, che devo fare? O forse dovrei dire “come devo dire”? Che sinonimo di “dire” dovrei usare per eliminare questa brutta ripetizione? Ma basta davvero eliminare le ripetizioni per rendere tutto più bello? E perché allora ripetiamo spesso gli stessi errori, anche se è diabolico perseverare? Che poi, chi l’ha deciso che il diavolo non possa saperne più (e meglio) dell’umano? E se l’umano fosse più diabolico del diabolico, come ci salviamo? Perseverando? E perché adesso sto perseverando nelle domande? Forse perché non so più niente, figuriamoci le risposte giuste? Che poi, una volta trovata la risposta, si può dire davvero si sia perso il senso della domanda? Quindi il bello della domanda è la domanda? Quindi la domanda muore a causa della risposta? Causa interna, causa esterna o causa efficiente? Quando qualcosa non è più efficiente a volte si può riciclare, ma quando qualcuno non è più efficiente lo si butta via e basta? E perché siamo più abituati a riciclare le persone, che così ci inquinano la vita, e non le cose, che così inquinerebbero di meno l’ambiente? L’ambiente che ci circonda è ancora il nostro habitat naturale? Ma esiste ancora da qualche parte il nostro habitat naturale, o l’ha seppellito qualche colata di cemento? Sarebbe stata migliore una colata di gelato, o no? Ed è meglio l’asfalto bagnato o quello gelato, che non si mangia? Si potrebbe congelare l’asfalto? E se mi si fosse gelato il cuore, posso scongelarlo, all’occorrenza, e poi ricongelarlo? O devo consumarlo per forza perché se no va a male?

E voi, cosa vi state domandando? Quando diavolo finisce questo post? Oppure con quale domanda lo continuereste?